Falls Church, Virginia

La Jaguar di Mercer strisciò come un’ombra scura lungo l’ampio viale di accesso, con il rombo del motore V12 ridotto a un sommesso ronzio e i pneumatici Pirelli che sibilavano sull’asfalto umido. Una nebbiolina sottile ammantava di argento la notte illuminata dai due fasci di luce dei fari. I suoi occhi erano tesi nell’attesa interminabile di vedere la casa alla fine del viale, così lungo da essere inverosimile.

Guardò il contachilometri: aveva percorso quasi due chilometri da quando aveva lasciato la strada principale. Quando alzò lo sguardo, finalmente vide le deboli luci della casa di Max Johnston. Percorse l’ultima curva e finalmente si trovò davanti alla villa.

Era un’immensa costruzione in stile tudor con un numero imprecisato di timpani, travi di rovere a vista e falde del tetto ripidissime, alte una cinquantina di metri. Le imponenti dimensioni erano mitigate dallo stile eccentrico della casa. Le finestre erano quasi tutte al primo e al secondo piano, illuminate e accoglienti in quella serata umida. Mentre si avvicinava all’ingresso, Mercer contò otto comignoli.

Lo accolse un valletto che aprì la portiera della Jaguar XJS, e Mercer vide una lunga parata di limousine parcheggiate lungo il viale. Scese dall’auto, lasciando che il valletto sprofondasse nel sedile di pelle.

Da dentro la villa, sentì il vibrato solenne di un violoncello accompagnato da un violino e da quello che sembrava essere un clavicembalo. Non riusciva a riconoscere il brano, ma apprezzò la qualità dell’esecuzione. Sotto i polsini dello smoking, indossava il suo orologio TAG Heuer, disastrato dalle sue precedenti avventure.

Erano le nove e mezza. Perfetto. La cena, che di sicuro era stata una noia mortale, era ormai conclusa e stava per iniziare il ricevimento vero e proprio.

Porse il suo invito a un cameriere dall’aria poco sveglia. Mercer era in ritardo di diverse ore, e ricevette uno sguardo diffidente che esaminò lui e il biglietto di invito con sospetto.

“Sono caduto in una bottiglia di vodka e non riuscivo a rialzarmi.” Spiegò Mercer mentre sgattaiolava oltre l’usciere.

Il salone di ingresso era alto un piano e mezzo, con il pavimento in legno e i soffitti impreziositi da stucchi. Al centro dell’atrio spiccava un tavolo di ciliegio con la superficie lucida quasi interamente nascosta da composizioni di fiori selvatici che diffondevano il loro profumo delicato in tutta la sala. Sopra il tavolo pendeva uno sfavillante lampadario di cristallo, come una fragile stalattite.

In una stanza sulla destra Mercer vide dei camerieri che allestivano il buffet dei dessert. Torte, mousse, dolci al cucchiaio e ogni genere di creazione zuccherosa ricoprirono un tavolo da almeno trenta posti. Mentre attraversava la sala, la musica classica suonata dal trio si fece più forte. Sul fondo, una porta alta tre metri si apriva su un salotto più grande della maggior parte degli appartamenti di periferia.

I mobili erano tutti dell’Ottocento, principalmente di Duncan Phyfe e di John Henry Belter. L’enorme spazio era diviso in quattro zone di conversazione arredate con divani di diverse dimensioni e sedie disposte attorno a tavoli tutti uguali, simmetrici come delle fortificazioni difensive. Alle pareti erano appesi solo quadri naif, ad eccezione di un ritratto di Sargent che raffigurava una madre con sua figlia, e di un paesaggio di Grant Wood. Lungo una delle pareti era stato allestito un bancone bar davanti al quale gli ospiti aspettavano ordinatamente in fila chiacchierando in attesa di essere serviti.

I musicisti stavano al centro della stanza. Mercer li osservò per qualche minuto. Le violoncelliste avevano qualcosa di erotico, pensò. Quella che stava suonando in quel momento non era particolarmente bella, ma suscitava una certa attrazione. Indossava un abito color panna con uno spacco vertiginoso. Aveva bellissime gambe che avvolgevano lo strumento in un abbraccio d’amore. Mentre osservava le dita agili che si muovevano sulle corde si sentiva come un guardone, e distolse gli occhi prima che l’espressione del suo volto potesse metterlo in imbarazzo.

Oltre le numerose porte finestra all’altra estremità della stanza, Mercer intravide un enorme gazebo e i tavoli dove fino a poco prima erano seduti i duecento invitati alla cena. Notò che il barman aveva una bottiglia di succo di lime con cui avrebbe potuto preparargli un Vodka Gimlet, ma proprio in quell’istante sentì una mano stringergli la spalla.

“Cosa ci fa una canaglia come te in un posto come questo?”

Mercer si voltò e sorrise riconoscendo quella voce inconfondibile. “Sono qui per rovinare la festa di un importante membro del Gabinetto.”

Connie van Buren si sollevò per dargli un bacio sulla guancia. “Accidenti, sei bellissimo, e hai anche un buon profumo.”

“Connie, ma tu sei sposata.”

“Mio marito è nel Nuovo Messico” disse maliziosa.

“E la mia libido è in cassaforte.”

“L’eterno scapolo” lo rimproverò lei. “Quand’è che ti sposi?”

“Sposerò la prima donna che si alza per farmi sedere.”

Si erano conosciuti parecchi anni prima quando Connie lavorava per il Ministero degli Interni e Mercer era consulente per una società mineraria tedesca chiamata Koenig Minerals. All’epoca, lei stava dedicando tutte le sue energie a impedire che quella società aprisse una miniera nello Utah. Avevano un passato costellato di danni ambientali tra i peggiori del mondo. Mercer era intervenuto su richiesta della Koenig e, con grande sollievo del Ministero, era riuscito a trovare un compromesso accettabile per entrambe le parti. Lui e Connie erano rimasti in contatto, seguendo i reciproci avanzamenti di carriera nelle rispettive professioni.

“Ho notato che non eri presente alla cena. Avresti dovuto essere alla mia sinistra, e invece per colpa tua mi sono dovuta sorbire un avvocato mieloso che parlava come se stesse facendo una conferenza stampa.”

“Sapevo che sarebbe stata una cena tremenda, ma non pensavo che Max avesse invitato anche gli avvocati.”

“Max ha invitato tutti quelli che conosce in città. Non capita tutti i giorni di inaugurare una banca dei cervelli che vale quaranta milioni di dollari, e lui vuole essere sicuro che nessuno se lo dimentichi.”

Mercer si guardò attorno mentre dal gazebo continuavano ad arrivare gli invitati. Connie aveva ragione, la sala si stava riempiendo di pezzi grossi. Il portavoce della Casa Bianca era impegnato in una conversazione con il Capo di Stato Maggiore, e dietro di loro svariati giornalisti ben conosciuti delle reti nazionali pendevano dalle labbra di un senatore completamente sbronzo. Il Johnston Group stava ricevendo importanti conferme dall’élite di Washington.

“Dov’è il padrone di casa?” chiese Mercer passando al setaccio la folla cercando Max Johnston.

“È qui in giro, che si gode il bagno di folla. Oggi pomeriggio lui e il Presidente hanno giocato a golf, e il vecchio gli ha dato la sua approvazione ufficiale. Max ha organizzato questa festa per permettere a tutti di baciargli l’anello.” Connie si zittì riconoscendo un uomo che attraversava la sala e si dirigeva verso di lei. “Accidenti. Robert Baird.”

“E chi è?” chiese Mercer vedendo un uomo che avanzava tra la folla.

“È l’esponente della lobby della divisione per la ricerca nucleare della Petromax Oil, uno dei leccapiedi di Max che cerca di accattivarsi i miei favori. Vorrai scusarmi se mi eclisso nel bagno delle signore.”

E infatti Baird si avvicinò con l’espressione tipica del “Toh, chi si vede” mentre il poderoso deretano di Connie si allontanava dondolando dalla sala. Guardò Mercer per un secondo valutando se era qualcuno a cui valesse la pena di sottoporre la sua causa, dato che lo aveva visto conversare fino a un istante prima con il segretario per le politiche energetiche. Mercer accennò un sorriso ebete e Baird si allontanò in cerca di qualche bocconcino più influente.

Mercer lo guardò mentre tornava furtivo verso le porte finestra e d’un tratto la vide. Gli dava la schiena, era un po’ di sbieco, e parlava con l’ultimo Premio Nobel per la chimica. Nel mondo compassato dell’alta società di Washington un vestito provocante era visto come un affronto a tutto ciò in cui la città credeva. Le donne presenti, sebbene vestite in modo elegante, trasudavano un’aria di conservatorismo che escludeva qualsiasi richiamo erotico.

Ma lei sembrava appena uscita da una premiazione di Hollywood. Indossava un vestito nero che risaltava sulla pelle candida ed era così scollato sulla schiena che, con un po’ di immaginazione, Mercer riuscì quasi a visualizzare un’ombra nel punto in cui i suoi glutei si dividevano in due emisferi rotondi. La pelle della schiena era immacolata. Era alta, ma non tanto da farne un elemento di distrazione. La sua altezza serviva solo a permettere di ammirarla meglio. Si voltò, e lui poté vedere i suoi occhi. Il berillo è un minerale abbastanza comune, di interesse limitato o nullo. È considerato un sottoprodotto dell’estrazione della mica e del feldspato. Ma quando nella composizione del berillo è presente l’alluminio, allora prende il nome di acquamarina, una pietra semi-preziosa. E quando la natura aggiunge tracce di cromo invece che di alluminio, il berillo diventa smeraldo, una delle gemme più amate. L’intensità del colore dello smeraldo dipende dalla quantità di cromo. Se è troppo, la pietra diventa scura, senza luce, morta. Se è troppo poco, la pietra assume un colore pallido e slavato. La pietra perfetta è quella che ha un colore intenso pur mantenendo la sua brillantezza, e il suo valore aumenta in proporzione.

E lei aveva gli occhi verdi. Un tono di verde perfetto che fulminò Mercer come un cavo ad alta tensione. Lei lo guardò per un momento, mentre passava le unghie tra i capelli corti, di un colore biondo scuro e ramati allo stesso tempo, tenuti aderenti al cranio da un velo di gel. Gli sembrò di affogare.

I tratti del suo viso erano tutti perfetti. Le labbra dolcemente arrotondate incorniciavano una bocca sensuale che sembrava sempre sul punto di ridere. Gli zigomi segnavano i lati del viso con la delicatezza di un’ala di gabbiano. Il mento era deciso, con una fossetta appena accennata. Sopra quegli occhi sconvolgenti, le sopracciglia erano ampie e scure, quasi troppo marcate su un viso così delicato, al quale tuttavia aggiungevano un magnetismo innegabile. Il naso era piccolo e molto femminile.

Era un incanto, dalla fronte ampia alla gola sottile. Non c’era confronto tra lei e le donne altezzose e plastificate che molti degli uomini presenti chiamavano mogli. Aveva l’aspetto di una fotomodella, inarrivabile e statuaria, e su di lui esercitava un fascino che alle altre mancava del tutto.

Spostò il peso da una gamba all’altra. Il vestito le fasciava le anche che dalla vita sottile scendevano in una linea straordinariamente aggraziata, e lo spacco sul davanti si aprì rivelando l’interno della coscia. Se Mercer in quel momento fosse riuscito a respirare, la vista gli avrebbe mozzato il fiato. Sul davanti il vestito la copriva completamente, dai polpacci alla gola, ma Mercer non poté non notare i seni liberi, piccoli e sodi, e i capezzoli turgidi per l’aria fresca della notte che premevano contro il tessuto.

“Cosa posso servirle, signore?” Il cameriere distrasse Mercer. Ordinò rapidamente un Gimlet e si voltò di nuovo verso le porte sul giardino, ma lei era sparita. Merda.

Prese il suo drink e ringraziò distrattamente. Si rese conto che era bastato quello sguardo fugace per causargli un’erezione. Non gli succedeva dai tempi del liceo, quando aveva avuto una supplente di ventuno anni per una settimana.

“Potrebbe cortesemente rimettermi addosso i miei vestiti?”

“Prego?” Mercer si voltò e il respiro gli si inceppò in gola. Da vicino era ancora più bella. Le labbra avevano un’espressione imbronciata tremendamente seducente, al punto che Mercer si accorse che si stava sporgendo inconsapevolmente per avvicinarsi.

“Visto che mi ha appena spogliata con gli occhi, le sarei grato se volesse rivestirmi, dottor Mercer.” La luce maliziosa del suo sguardo rivelava che l’averlo messo a disagio le procurava grande soddisfazione. Mercer valutò che doveva avere una trentina d’anni, l’età perfetta in cui una donna conserva la bellezza della gioventù temprandola con la consapevolezza dell’esperienza.

“Lei mi conosce?” Mercer era sbalordito. Era sicuro che se si fossero già incontrati se la sarebbe ricordata.

“Accidenti, come dimentica in fretta.” Rise e si avviò per allontanarsi, con i glutei che ondeggiavano da un lato all’altro mentre la schiena rimaneva perfettamente diritta. Fece qualche passo e poi si fermò. “Ci siamo visti ieri mattina.”

Quando Mercer realizzò chi era, lei era di nuovo sparita nella folla. Era stato così rapito dal suo aspetto che non aveva prestato alcuna attenzione alla sua voce, gutturale e morbida insieme, accattivante e… inconfondibile.

Quasi rovesciò il drink per lanciarsi in mezzo alla gente a cercarla.

Era la sua oppositrice alla lezione della George Washington University. Gli ci era voluto un po’ per ricollegare quella ragazza trasandata con la splendida donna che si era appena allontanata. Cosa diavolo ci faceva un’ambientalista militante al ricevimento di una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo?

Avanzò velocemente per cercarla, scusandosi con le persone che urtava. All’improvviso, un uomo si voltò e si trovarono faccia a faccia.

Rimasero entrambi interdetti e Mercer notò che l’uomo impallidì nel vederlo, ma riprese immediatamente colore e i suoi bei lineamenti si illuminarono in un ampio sorriso.

“Mercer, non pensavo che ce l’avresti fatta.” Max Johnston sembrava sinceramente contento di vedere Mercer alla sua festa.

Aveva una sessantina d’anni, ma sembrava ne avesse dieci di meno; aveva un corpo asciutto e tonico, modellato da una leggendaria routine quotidiana di esercizi e da gare biennali di triathlon. Il volto era segnato dal sole del Texas, dove era cresciuto, ma era riuscito a mettere su una patina aristocratica che mascherava le sue origini. I capelli erano ancora folti e ondulati, argentei solo sulle tempie.

Afferrò la mano di Mercer e la strinse vigorosamente.

La persona con cui Mercer stava parlando svanì.

“Ho dovuto rapinare un cameriere e fregargli lo smoking” disse Mercer ricambiando il sorriso. “Un grande evento, complimenti.”

“Nutro grandi speranze per il Johnston Group” disse Max come se stesse leggendo un discorso. “Il Presidente ci ha lanciato la sfida di liberare l’America dalla dipendenza dal petrolio, e credo che noi possiamo aiutarlo.”

“Non è come darsi la zappa sui piedi?” disse Mercer scherzoso.

“Non direi. La Petromax è talmente diversificata che chiudere le importazioni di petrolio potrebbe essere di aiuto per la compagnia. Infatti ho appena chiuso un contratto per vendere le nostre ultime tre superpetroliere. No, siamo pronti per dare un nuovo corso al futuro.”

“Non siete coinvolti nelle esplorazioni del Rifugio della Fauna Artica?” Nonostante desiderasse andare a cercare la donna di poco prima, Mercer non poteva certo sottrarsi alla conversazione con il padrone di casa.

“Certo, ma quella è solo una piccola parte di tutto quello che abbiamo in programma. Il petrolio che estrarremo dall’oasi naturalistica porterà alla Petromax il capitale necessario per porsi come il leader nel campo delle tecnologie per le energie alternative. Abbiamo già avviato dei progetti pilota e i nostri tecnici di laboratorio stanno sviluppando un impianto per il cracking dell’idrogeno che usa l’acqua di mare come combustibile. Lo studio della fusione ci ha insegnato che nella materia c’è più energia di quanta ne abbiamo mai immaginata.” Johnston teneva in mano un bicchiere di champagne pieno a metà. “C’è più energia in questo bicchiere di quanta ne sia stata prodotta dal genere umano dal primo fuocherello in una grotta duecentomila anni fa, e ogni giorno che passa ci avviciniamo sempre più alla possibilità di catturarla.”

Mercer buttò lo sguardo oltre la spalla di Johnston e vide che la donna di poco prima si stava avvicinando a loro, con il corpo che fluttuava al ritmo della musica da camera e gli occhi incollati ai suoi. Intuì che si sarebbe presto trovato nel bel mezzo di un conflitto tra Johnston e la bella ambientalista. “Oh oh..”

Max si voltò, seguendo la direzione dello sguardo di Mercer e mormorò: “Oh merda.”

“La conosci?”

Prima che Max potesse rispondere, lei li aveva raggiunti e aveva infilato il braccio esile sotto quello di Max Johnston con un gesto molto intimo. Max la guardò con indulgenza per un momento, poi si rivolse a Mercer per le presentazioni. Stava per parlare ma lei lo batté sul tempo.

“Mi scuso per averle mentito, dottor Mercer.” Il suo sorriso lo stordì. “Prima di ieri ci siamo incontrati un’altra volta, ma dubito che se ne possa ricordare. È stato una decina di anni fa a Houston, quando la Petromax annunciò la scoperta del giacimento dell’Edwards Plateau. Ricordo che lei indossava un abito color verde oliva e una cravatta con dei motivi neri. Era l’unico uomo che non indossava uno di quegli orrendi cappelli da cowboy.”

“Tesoro, quei cappelli sono il simbolo del più grande stato degli Stati Uniti.” Max distolse lo sguardo dalla donna e guardò Mercer negli occhi. Era uno sguardo pieno di trepidazione. “Beh, si direbbe che le presentazioni non siano necessarie, visto che vi conoscete già.”

Mercer ritrovò l’uso della parola.

“Forse ho comunque bisogno di un aiuto.”

Max sorrise affettuosamente. “Questa è mia figlia, Agatha.”

“Mia nonna ha subìto la condanna di questo nome per tutta la vita.” Gli tese la mano, che Mercer afferrò con la religiosità di un devoto che tocca una reliquia. “Ma io non ci penso proprio. La prego, dottor Mercer, mi chiami Aggie.”

Fu come se tra le loro mani fluisse una forza primordiale. Mercer trattenne la presa molto più a lungo di quanto accade in una normale presentazione, più a lungo di quanto previsto in caso di reciproca attrazione, più a lungo di… Fu solo quando Max diede un colpetto di tosse che Mercer, controvoglia, lasciò la mano di lei. I loro occhi rimasero incollati, verde chiaro e grigio nuvola, terra vergine e cielo in tempesta.

“Uso il mio titolo professionale solo quando devo prenotare un ristorante. Lasci perdere le formalità, mi chiami Mercer come fanno tutti.”

Aggie fece un passettino indietro. “Si vergogna così tanto dei suoi successi che cerca di nascondere la sua identità? Mio Dio, lei ha distrutto con un gesto un’intera montagna quando ha tracciato i confini delle miniere di Gudhatra. E che mi dice dell’Australia? Quanti aborigeni hanno dovuto essere spostati dopo che l’azienda per cui lei lavorava ha picchettato centomila acri di terra per avviare una miniera di opale? Non sia così modesto, dottor Mercer. Per qualcuno lei è un vero eroe. Non è vero, papà?”

Max Johnston era visibilmente a disagio. Si guardò attorno, per accertarsi che nessuno dei suoi ricchissimi ospiti avesse sentito lo sfogo di sua figlia. Si intuiva che aveva ascoltato le sue opinioni talmente tante volte che avrebbe potuto ripeterle a memoria.

“Basta così, Aggie. Mi hai promesso che saresti stata al mio fianco stasera e che non avresti fatto le tue sparate” sibilò Johnston. “Cristo, sei premurosa quasi quanto lo era tua madre.”

Si voltò verso Mercer. “Mi dispiace. Andiamo a prenderci da bere.”

Cinse la spalla di Mercer con il suo braccio vigoroso e lo trascinò via. Mercer voltò la testa e vide che Aggie lanciava al padre uno sguardo di puro odio.

“Tu non hai figli, vero?” gli chiese Max mentre il barista preparava un altro Gimlet e riempiva di champagne il bicchiere del padrone di casa.

“No. Ho capito sin da giovane che sono a malapena in grado di occuparmi di me stesso, come potrei occuparmi di un figlio?”

Max sorrise, si stava rilassando. “Lei è la mia più grande gioia e sono orgoglioso di tutti i suoi successi, anche se si ritorcono contro di me. Sai che si è laureata con il punteggio più alto del suo corso? Ha una laurea in ingegneria ambientale, guarda caso. È piuttosto intelligente, ma spreca il suo talento in battaglie contro i mulini a vento. Credo che non sia mai cresciuta. L’ho viziata in modo vergognoso. E continuo a farlo, cazzo, lasciandola andare in giro a combinare casini con quel gruppo ecologista.

Mercer non provava alcun interesse per le problematiche relazionali tra Max e sua figlia, ma dopo aver ascoltato pazientemente, si sentì in dovere di fare un commento: “Max, è una donna adulta. Non credi che debba fare da sola le sue scelte?”

“Se io permettessi agli altri di fare delle scelte, niente di tutto questo esisterebbe oggi.” Max disegnò un cerchio col bicchiere a indicare tutto ciò che li circondava. Mercer non capì se scherzava o diceva sul serio.

“Non dovrei appesantirti con questi discorsi.” Rientrò nel suo personaggio pubblico. “Ci sono momenti in cui io e lei andiamo perfettamente d’accordo. Vieni, prendine un altro.” Mercer lasciò che Max gli mettesse in mano un altro Gimlet. “Ti prego di scusarmi, devo andare a salutare Connie van Buren.”

Max Johnston scomparve tra la folla, lasciando Mercer felicemente libero. Finì il primo drink che Max gli aveva servito e bevve un sorso dal secondo. Sorrise tra sé osservando l’opulenza che lo circondava e pensò che per quanto uno sia ricco, è comunque afflitto dai problemi più banali.

Max Johnston i suoi li sfoggiava alquanto apertamente. Era vedovo. Sua moglie aveva ceduto a un desiderio di suicidio indotto dalla dipendenza dall’alcool. Mercer si ricordò che quando aveva incontrato Max per la prima volta aveva intuito che nell’aria aleggiava un problema di alcool. Quella sera la festa era iniziata da un’ora e Barbara Johnston era già ubriaca, al punto che Max aveva dovuto chiedere allo chauffeur di portarla nella loro limousine. Sei anni più tardi, dopo innumerevoli programmi di disintossicazione impietosamente documentati dai media, Barbara buttò giù una boccetta di sonniferi con mezzo litro di vodka e lasciò un biglietto che diceva: “Vado a dormire. Per favore svegliatemi quando vivere sarà un po’ più facile.” E ora Max si trovava a dover discutere con sua figlia davanti ad alcuni dei personaggi più potenti del mondo.

Se quello era il prezzo del successo, Mercer decise che Max poteva anche tenerselo.

Scrutò la sala e vide con un certo sollievo che Aggie era sparita. Parlare con lei in quella situazione sarebbe stato a dir poco complicato. Nel giro di pochi minuti stava parlando con il co-presidente della divisione scientifica del Johnston Group, ma la scena di qualche istante prima era tutt’altro che dimenticata.

Mezz’ora dopo percepì il suo profumo. Prima non lo aveva notato perché era molto delicato. Dagli sguardi famelici degli uomini e dalle occhiate stizzite delle mogli gelose Mercer capì che Aggie Johnston era proprio alle sue spalle. Si voltò. Lei aveva l’aria di essersi ripresa dalla discussione con il padre, ma lui vide un’ombra che prima non c’era offuscare il verde impossibile dei suoi occhi. Mercer sapeva che era molto meglio comportarsi come se non fosse successo niente anziché sparare qualche banalità sulle difficoltà di natura relazionale.

“Non ho ancora avuto la possibilità di rispondere al tuo attacco alla mia professione.”

Aggie gli rivolse un sorriso pieno di gratitudine, un leggero movimento delle labbra che gli procurò un’emozione inattesa. Tuttavia, quando parlò, il sarcasmo inasprì il suo tono di voce. “La compagnia di mio padre possiede quattro studi legali e un intero esercito di esperti di pubbliche relazioni. Presentano le scuse ancor prima che il resto dell’azienda generi i disastri ambientali. Sono sicura che potresti fare parte della stessa banda.”

Fece una pausa e lo osservò attentamente. “Lascia che indovini. Stai per dirmi che tutto quello che fai crea posti di lavoro in tutto il mondo e dà speranza a persone che stanno morendo di fame che vivono ancora nell’Ottocento. Ci ho preso?”

Mercer intuì che lei era la classica contestatrice ‘causa-effetto’. Se nel mondo c’era un effetto, lei si schierava contro la causa. Sicuramente era iscritta a un gran numero di associazioni, e sosteneva tutte quelle nuove non appena diventavano famose. Harry White prendeva in giro quel tipo di persone chiamandole ‘liberali nuova fragranza’. Non aveva importanza se alcune delle sue convinzioni erano diametralmente opposte ad altre, purché fossero politicamente corrette e alla moda.

Usò questo punto debole per ribattere con uguale veemenza. “Hai un’idea di quanti milioni di ragazze sono private di una vita decente perché devono portare l’acqua ai villaggi percorrendo spesso parecchi chilometri? Sono ridotte al livello degli animali da soma perché non hanno accesso a un pozzo o a una pompa meccanica. Avere l’acqua a disposizione è un fatto talmente diffuso che lo si dà per scontato, ma ci sono molte persone al mondo per le quali è un lusso irraggiungibile, un sogno.

“Quei posti di lavoro che io contribuisco a creare, e che tu tratti con disprezzo, possono dare la libertà a quelle donne. Quando una delle società per cui lavoro inizia a pagare gli stipendi, questo ha effetti non solo su di loro, ma sulle loro famiglie e sui loro villaggi. Significa speranza per la gente. Cristo, negarglielo significa tornare all’epoca coloniale dello sfruttamento degli esseri umani. È questo che vuoi?”

Il fatto che lui la trovasse bellissima non aveva importanza, non si sarebbe mai lasciato abbindolare. La sua reputazione, buona e cattiva, era il suo testamento e l’avrebbe difesa a qualunque costo.

Il sorriso di Aggie era condiscendente e ironico. “Bel colpo, dottor Mercer. Funzionerebbe quasi con tutti. Ma sebbene io creda nei diritti delle donne e deplori il trattamento che riceviamo, sono un’ambientalista, non una femminista. Non sono né socialista né contraria alle tecnologie, quindi i tuoi argomenti sono opinabili. Io ho le mie convinzioni e tu hai le tue. E non si incontrano.”

“C’è qualcosa di quello che ho detto ieri che ha un senso per te?” Mercer sperava di individuare un terreno comune, un motivo per trattenerla.

“No, niente. Forse avrai impressionato gli studenti, ma i cliché e le iperboli non fanno colpo su chi è realmente informato. E quanto alla tua teoria che l’uomo, distruggendo l’ambiente, è in linea con l’evoluzione, sono tutte cazzate e lo sai benissimo anche tu.”

Trovò attraente il suo modo di usare le parolacce. “Senti, mano a mano che studiamo l’evoluzione e l’estinzione scopriamo che il comportamento contribuisce a far scomparire una specie tanto quanto i cambiamenti ambientali o qualsiasi altro fattore. Se le nostre azioni contribuiscono alla nostra distruzione, quello è il patto che la natura ha fatto con noi. Punto.”

“E secondo te non esiste un motivo valido per modificare tutto questo?” gli disse lei lanciandogli la sfida.

“Non vedo come sia possibile fermare il processo. Il governo cinese sta pensando di dotare di frigorifero tutte le case del paese. La tecnologia antiquata che usano pomperà una tale quantità di CFC e altre sostanze dannose per lo strato di ozono da vanificare qualsiasi contromisura verrà presa dai paesi occidentali. Non riusciremo ad adeguarci abbastanza rapidamente da prevenire l’effetto serra che ti fa tanta paura. Perché la PEAL non cerca di fermarli? I gruppi come il vostro sono bravissimi a sollevare controversie e a produrre titoli di effetto, ma quanto a trovare delle soluzioni, non ci provate neanche. Non avete abbastanza fatti a supporto delle vostre proteste, e allora vi appellate alle emozioni per far arrivare il vostro messaggio. Immagino che tu sia d’accordo con le conclusioni del Summit della Terra di Rio, giusto?”

“Ho partecipato” rispose Aggie con orgoglio.

“Ti ricordi l’articolo 15 della dichiarazione di Rio?”

Aggie scosse la testa.

“Mi sono sforzato di impararlo a memoria, perché mi ha disgustato profondamente e volevo essere sicuro di non dimenticarmelo. ‘L’assenza di certezze scientifiche non deve essere usata come ragione per impedire che si adottino misure di prevenzione della degradazione ambientale.’ Questo significa che non è necessario che ci sia l’evidenza scientifica per agire. Il denaro dei contribuenti può essere speso per risolvere un problema che magari non esiste neanche. È incredibile che gli Stati Uniti abbiano firmato una simile robaccia, che potrebbe portare il paese a stanziare miliardi di dollari senza sapere come verranno spesi.

“Pensi di stare agendo per modificare il modo in cui il genere umano si interessa del pianeta? C’è un altro documento che è stato firmato a Rio, si chiama Agenda 21, che in effetti dice che il solo modo per arginare i danni ambientali nell’emisfero settentrionale è quello di rovesciare tonnellate di denaro nelle nazioni del Terzo Mondo dell’emisfero meridionale. Ti pare che abbia un senso? Io non ce lo trovo. Come ho detto ieri a lezione, se tu provi vergogna per alcuni dei nostri successi, sono spiacente, ma alcuni di noi ne vanno molto fieri.”

Mercer si voltò per andarsene, lasciando Aggie senza parole e a bocca aperta. “Una piccola precisazione, prima che me ne vada. Gli stessi scienziati ai quali vi affidate per avere l’evidenza del riscaldamento globale, negli anni settanta scrissero fiumi di parole affermando che l’inquinamento stava raffreddando il pianeta e ci avrebbe portato verso una nuova era glaciale. Quando sarai in grado di supportare con dei fatti i tuoi cliché e le tue iperboli, ne riparleremo.”

Prima che Aggie riuscisse a reagire, se n’era già andato.

Dato che Mercer era arrivato per ultimo ed era il primo ad andarsene dalla festa, il valletto ci mise pochi secondi per recuperare la sua Jaguar e portarla sotto la pensilina dell’ingresso subito dopo che lui era uscito dalla porta principale. Mercer era infuriato con se stesso per essersi lasciato coinvolgere in quella conversazione e per aver pensato con il testosterone invece che con la testa. Non poteva negare di provare una certa attrazione, ma la faccenda finiva lì.

Scivolò sul sedile a chiuse la portiera sbattendola, ma mentre spostava la leva del cambio automatico alla posizione di marcia vide una mano aggrappata al finestrino del passeggero. Sorpreso, tolse la sicura ed Aggie Johnston si infilò nell’auto. Senza dire una parola Mercer pigiò sull’acceleratore e partì, col motore che rombava vigorosamente.

Quando Mercer voltò per immettersi sulla statale, Aggie tirò fuori da una piccola borsetta un pacchetto di sigarette e un accendino d’oro. Ne accese una e un riflesso tremante si proiettò sulla luce soffusa del cruscotto. Lei lo guardò sfidandolo a commentare il suo vizio.

Lui lasciò cadere il silenzio, chiedendosi come sarebbe andata a finire, segretamente felice che lei lo avesse seguito.

“Lo odio quasi quanto lo amo.” Mercer capì che stava parlando di suo padre. “Sotto molti aspetti è l’uomo più gentile e premuroso che io abbia mai incontrato, ma non posso fare a meno di contestarlo. È un salutista fissato, perciò ho cominciato a fregare le sigarette al personale quando avevo quindici anni, sperando che mi beccasse, ma lui non se n’è mai accorto. E tutt’ora non sa che fumo. E siccome ha costruito il suo impero sul petrolio ho deciso, ancor prima di sapere cosa significasse, di diventare un’ambientalista.”

Il finestrino si abbassò e Aggie buttò fuori il mozzicone. “A volte mi chiedo se ha mai notato qualcuna delle cose che ho fatto. Non si è mai accorto della disperazione di mia madre, e quando lo ha fatto era troppo tardi.”

Era evidente che aveva solo bisogno di parlare, e Mercer rimase in silenzio.

“Si è uccisa quando stavo per laurearmi. L’ho saputo dall’autista che mio padre aveva mandato a prendermi per portarmi a casa per il funerale. Si potrebbe pensare che tra me e mia madre ci fosse un rapporto intimo, ma non era così. Al suo funerale ho pianto, e ogni tanto lo faccio ancora, ma non perché sento la sua mancanza: è per la pietà che provo. Era proprio una persona da compatire.

“Gli unici ricordi nitidi che ho di lei sono i ricordi di quando era ubriaca, e di quando, poco tempo prima che si suicidasse, l’ho quasi trovata a letto con un altro uomo. Volevo con tutte le mie forze dare la colpa a mio padre, ma non ci sono riuscita. Lei era in preda a un autolesionismo che la costringeva a rimanere lì, per darsi un motivo valido per continuare a rovinarsi con le sbronze e con gli uomini. Anche se lo avesse lasciato, si sarebbe uccisa lo stesso. Prima hai parlato del destino del genere umano. Beh, il destino di Barbara Johnston era quello di morire suicida, e niente avrebbe potuto impedirlo.”

Mercer guardò Aggie. Le tremavano le mani mentre accendeva un’altra sigaretta, ma la sua voce era ferma. Non ci voleva uno psicologo professionista per comprendere i conflitti emotivi che popolavano la sua personalità e muovevano le sue azioni. La sua rabbia nei confronti del padre l’aveva portata a sposare cause impossibili contro di lui. E quella rabbia non era generata dalla morte di sua madre, ma dalla sua incapacità di evitarla. Tutto sembrava dirgli che era meglio starle lontano, ma Mercer si sentiva tremendamente attratto da quel contrasto di forza e vulnerabilità.

“Dove abiti?” le chiese mentre si avvicinavano alla capitale.

“A Georgetown. Ho un appartamento lungo il canale.”

Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, ma non era un silenzio imbarazzato. Per indicargli la strada per arrivare a casa Aggie parlò a monosillabi o con cenni del capo. Il condominio in cui si trovava il suo appartamento era un ex magazzino sulle rive del canale C&O. Mercer sapeva che in quella zona i prezzi andavano dal mezzo milione di dollari in su.

Aveva iniziato a piovere e, mentre le gocce chiazzavano il parabrezza, Mercer arrivò davanti all’ingresso dell’edificio. Aggie aspettò che il vento si calmasse, tenendo la borsetta sulle ginocchia e abbandonando il corpo affusolato avvolto nel sedile della Jaguar. Quando parlò, la sua voce era dolce, quasi timida.

“Non avevo intenzione di litigare con te stasera. Anzi, a dire il vero volevo sedurti.” Lo guardò, aspettando una reazione che lui si rifiutò di manifestare. “La prima volta che ti ho visto mi sono fatta un’immagine molto nobile di te. Pensavo che fossi diverso da tutti gli altri. Credo si sia trattato di una cotta adolescenziale.”

Aprì la portiera e uscì dall’auto.

Prima di scomparire all’interno dell’edificio infilò la testa nell’auto e disse: “Meno male che ho imparato presto cosa vuol dire rimanere delusi.”

Chiuse dolcemente la portiera e se ne andò.

“Il fascino del vecchio Mercer colpisce ancora” borbottò ferito da quell’ultima affermazione.

Anziché concedersi un po’ di tempo per digerire quello che era successo, decise di scacciare il pensiero. Ma mentre chiamava a tremila miglia di distanza con il telefono dell’auto pensò che lo sfogo di Aggie era rivolto più a suo padre che a lui. E sul suo desiderio di sedurlo, beh, non era la prima donna che aveva deluso e non sarebbe stata l’ultima.

Il telefono smise di squillare. “Risponde la segreteria telefonica di Howard Small. Mi dispiace, non sono in casa, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.”

“Maledizione.” Mercer chiuse la chiamata senza lasciare nessun messaggio.

All’età di diciotto anni, Jamal Lincoln aveva il passato tipico degli adolescenti dei quartieri poveri di Washington. A tredici anni era entrato in una banda e due settimane dopo aveva assistito alla sua prima azione, quando si era trovato in mezzo a una sparatoria seguita a una trattativa andata male. Aveva raccolto la pistola caduta a suo cugino Rufus, al quale un proiettile da nove millimetri aveva appena sfondato la faccia facendogli uscire i denti dalla nuca, e aveva cominciato a sparare all’impazzata. Non colpì nessuno, ma la sensazione che provò segnò l’inizio di un percorso inevitabile che sarebbe durato tutta la vita.

Una settimana dopo aveva conficcato due pallottole nel petto di un commesso di supermercato e aveva usato i trentasette dollari, tanto valeva la vita di quell’uomo, per comprare le sue prime dosi di crack. Un po’ alla volta salì di grado nella banda, ricevendo promozioni proporzionate al numero di cadaveri che si lasciava dietro. Perse la verginità a quattordici anni, quando Nyeusi Radi, il capo della banda che si vantava che il suo nome in Swahili significava “Tuono nero”, gli procurò una prostituta per il suo compleanno. Jamal andava ancora a scuola e passava il tempo gironzolando per i corridoi o appostandosi fuori dalla scuola a vendere droga e a procurare nuove reclute per la banda. Eccelleva in entrambi i campi. A diciassette anni era sopravvissuto a un numero sufficiente di sparatorie da poter diventare uno dei luogotenenti di Radi.

Radi aveva ventiquattro anni ed era un milionario a cui restava poco tempo. Tutti sapevano che la sua fortuna sarebbe durata poco. La vita che aveva condotto lo avrebbe portato alla morte e quanto più a lungo resisteva tanto più vicina si faceva la sua fine. E Jamal, che aveva diciotto anni, era il principale candidato a prendere il suo posto, a fare soldi sul serio e detenere il potere. Era per questo che gli dava fastidio essere mandato a eseguire un incarico fuori dal suo orticello per far fuori un uomo che non aveva neanche mai sentito nominare.

Qualche ora prima, quella sera Radi aveva invitato Jamal nel suo covo, una serie di grandi stanze in un condominio abbandonato ad Anacostia. Radi gli aveva detto cosa doveva fare e gli aveva dato un’arma pulita. Durante tutto il colloquio c’era un bianco viscido che li guardava da un divano accanto alla scrivania di Radi. Quel tipo puzzava di sbirro dalla testa ai piedi, ma non fece una piega neanche quando Radi disse a Jamal che doveva far fuori quel tipo di Arlington.

Quando Jamal stava per lasciare la stanza, il bianco si era alzato e lo aveva afferrato per il bicipite. Le braccia di Jamal erano robusti fasci di muscoli sotto la pelle tesa e lucida, e quel bianco aveva dita sottili, pallide e ossute, che però affondavano tanto profondamente nel braccio di Jamal da paralizzarlo per il dolore.

“Falla sembrare una rapina. Fregagli l’orologio, il portafogli, quello che ti pare, ma accertati che sia morto. E se non muore lui, morirai tu.”

“Chi cazzo ti credi di essere, stronzo?” gli aveva strillato Jamal cercando di divincolare il braccio.

La morsa attorno al bicipite aveva stretto ancora più forte, costringendo Jamal a inginocchiarsi.

“Willis, dì al tuo cane di smettere di guaire, altrimenti gli stacco il braccio e lo uso per prenderlo a bastonate.”

“Jamal, fallo fuori ok? Non fare domande e non rompere i coglioni.” Nessuno chiamava mai Radi con il suo vero nome e nessuno riusciva mai a intimorirlo, ma era sembrato spaventato da quel bianco vestito di nero.

“Lo farò, Radi.” Jamal aveva guardato il suo capo, e si era meravigliato di vedere che tirava un sospiro di sollievo.

Secondo il Rolex appena rubato che portava al polso, Jamal stava camminando da tre ore. Durante l’attesa non aveva incrociato nessun poliziotto, e aveva visto solo qualche fratello, soprattutto zebre, cioè neri che cercavano di farsi passare per bianchi. Si sentiva abbastanza al sicuro, un po’ esposto ma sufficientemente anonimo. Comunque si sentisse, per niente al mondo avrebbe lasciato il quartiere prima di aver stecchito la sua vittima. Non voleva trovarsi un’altra volta davanti a quel tipo.

Aveva pensato di infilarsi nel bar che c’era in cima alla strada, specialmente dopo che aveva cominciato a piovere. I suoi documenti falsi erano fatti bene, ma voleva evitare che qualcuno li controllasse troppo da vicino. Una volta ammazzato quel tipo, un potenziale testimone avrebbe potuto dire solo che l’aggressore era un giovane di colore con un giubbotto di pelle. Cristo, era la descrizione di mezza città.

Jamal vide il cono di luce infilarsi tra le case e capì che una macchina aveva appena imboccato la via. Si voltò e vide i fari di un veicolo a qualche isolato di distanza, subito prima del bar.

La massiccia Glock 17 che teneva in tasca sembrò farsi improvvisamente leggera. Erano le undici e un quarto e tutte le altre case erano rimaste silenziose per ore. Quello doveva essere il suo uomo.sUna Chavy Cavalier malconcia uscì dal parcheggio davanti a Tiny proprio mentre Mercer voltava per imboccare la strada di casa sua. Era uno che non ignorava la provvidenza e senza pensarci due volte infilò la Jaguar nel posto vuoto ed entrò nel bar. Erano le undici e un quarto di sabato sera, e non sarebbe di certo andato a casa senza bere un goccetto per finire la serata.

“Ecco che torna l’eletto” grugnì Harry White parlando sopra la musica mentre Mercer entrava nel locale. “Cos’è successo? Hanno chiuso l’open bar o ti hanno cacciato via?”

Mercer si sedette al suo solito posto accanto a Harry e sorseggiò il Gimlet che Tiny gli aveva preparato quando lo aveva visto entrare. Tiny tastò il tessuto dello smoking di Mercer e annuì in segno di approvazione.

Mercer scosse la testa avvilito e disse: “Questo vecchio paralume non incanta più nessuno, caro mio.”

Tiny era proprio quello che gli ci voleva per dimenticarsi di Aggie Johnston e dei suoi problemi. Lui e Harry si sfottevano con un sarcasmo feroce che avrebbe fatto inorridire la maggior parte delle persone, ma nessuno dei due avrebbe voluto niente di diverso. Dopo un’ora e mezza il goccetto si era trasformato in un numero imprecisato di bevute e sia lui che Harry, oltre a un altro paio di avventori, avevano vuotato il portafogli. All’una Tiny chiuse il locale, premurandosi di chiamare un taxi per i suoi benefattori troppo ubriachi per guidare e assegnando autisti più o meno sobri a tutti gli altri. Harry e Mercer uscirono insieme, ognuno con una bottiglia di birra in ciascuna mano. Harry viveva a cinque isolati, nella direzione opposta rispetto alla casa di Mercer, e dopo un paio di battutacce sullo smoking di Mercer, si avviò barcollando per la strada.

Mercer lasciò la macchina davanti al bar e scese lungo la via, sorseggiando una delle due bottiglie mentre camminava, e a ogni passo ne rovesciava un po’. Quando gli si accavallarono i piedi e rischiò di finire lungo disteso sul marciapiede si rese conto di essere veramente sbronzo. Si guardò attorno con la vista annebbiata per controllare se qualcuno lo aveva visto ma la via sembrava deserta. Proseguì, finì la prima birra e arrivò all’isolato prima di quello di casa sua. Invece di combattere con la seconda birra per aprirla, un compito che sapeva essere impossibile nel suo stato, procedette tenendo in mano le due bottiglie a penzoloni. Inciampò di nuovo nel cordolo del marciapiede e rise di se stesso.

Aveva sentito dire da un sacco di gente che l’alcool deprimeva, ma lui in quel momento provava un’euforia perfetta che faceva sembrare tutto tremendamente ridicolo, anche la figura scura che stava sbucando da dietro un furgone parcheggiato a pochi passi da lui.

Mercer vide arrivare il colpo e avrebbe voluto allertare il suo corpo, ma i nervi erano rallentati dall’alcool e non ubbidirono. Era completamente inerte, e quella fu la sua salvezza. La canna della pistola lo colpì in faccia, con una violenza tale da farlo girare su se stesso e cadere sul marciapiede. Un calcio violentissimo lo colpì alle costole e lo rovesciò, e lui si lasciò rotolare via allontanandosi dall’aggressore, guadagnando un po’ di distanza per rimettersi in piedi.

Si alzò barcollando, con il lato destro del volto coperto di sangue e in bocca un sapore metallico e salato. La Glock lo raggiunse, e sentì la canna puntata contro il petto.

Un individuo normale sarebbe rimasto paralizzato dalla rapidità e dalla violenza di quell’attacco inatteso, ma la reazione di Mercer fu velocissima anche se rallentata dalle bevute, e l’alcool che gli circolava nelle vene gli dava un coraggio spietato. Balzò in avanti, ignorando la pistola, con le scarpe di cuoio che scivolavano sul cemento bagnato. Il colpo non partì.

Jamal Lincoln venne messo fuori combattimento dall’assalto di Mercer. Non aveva premuto abbastanza forte sulla sicura di quella pistola che non era abituato a usare, e stava cercando di sbloccarla: Mercer gli fu addosso in un attimo. La pistola era puntata contro il suo bersaglio e a quella distanza avrebbe potuto farlo volare a qualche decina di metri.

Mercer teneva ancora le bottiglie di birra, una in ciascuna mano, e le sollevò sbattendole contemporaneamente e con tutte le sue forze contro la testa di Jamal, colpendola su entrambi i lati. Per il colpo, la bottiglia piena esplose annaffiando entrambi di schiuma e schegge di vetro verde, mentre quella vuota rimase intatta, facendo perdere l’equilibrio a Jamal. Il suo braccio destro ondeggiò in aria e quando sparò il proiettile rimbalzò contro l’edificio di fronte. Jamal era stordito dal colpo ma ancora sufficientemente pronto da arrivare addosso a Mercer proprio mentre la bottiglia stava per raggiungerlo di nuovo, e la schivò per pochi centimetri.

La bottiglia vuota sibilò passando vicino alla testa di Jamal. Mercer non ci pensò due volte e conficcò i resti della bottiglia rotta nella gola dell’aggressore. Il vetro scheggiato penetrò nella pelle e nel tessuto muscolare come se fosse spugna, recidendo le arterie. La Glock cadde a terra e Jamal indietreggiò barcollando, tenendosi la gola squarciata con le mani. Fu l’ultimo gesto consapevole della sua vita.

Anche Mercer cadde a terra, completamente annientato dall’alcool, dallo shock e dalla paura. Una fitta oscurità si insediò nella sua mente, lasciandovi solo l’immagine di un tunnel invaso dalla nebbia. Le luci che si erano accese nella via al rumore dello sparo erano dei puntini lontani e svanivano man mano che altri se ne accendevano. Lasciò andare la testa sul cemento bagnato, mentre una sirena che sembrava provenire da un’altra dimensione si avvicinava ululando.

Mercer, come se parlasse con il cemento del marciapiede, bisbigliò: “Howard, sei morto vero? Scommetto che ti hanno già beccato.” E svenne.